A cura di Fabien Danesi
Questa mostra riunisce opere video della collezione del FRAC Corsica – ciascuna tracciando i percorsi di donne sospese tra lo sradicamento, la memoria e la cancellazione. Attraverso gesti essenziali, paesaggi attraversati e archivi ricomposti, questi film suggeriscono modi alternativi di abitare un mondo che spesso si ritrae o si frammenta.Lontano dall’offrire una narrazione univoca, la mostra abbraccia i frammenti – storie che emergono nella trama delle immagini in movimento. Qui incontriamo un’attivista uzbeka cancellata dalle storie ufficiali, una sopravvissuta iraniana la cui presenza si fonde con i rami di un albero, una figura mediterranea che maneggia seduzione e sfida, e una sirena contemporanea che si immerge tra le rovine di una città romana inghiottita dal mare. Queste presenze non parlano dal centro, ma dai margini – da luoghi segnati dalla spoliazione, dalla migrazione forzata o dall’imposizione a sparire. Eppure, persistono. Ritornano attraverso l’immagine, trasformate.Più che offrire un messaggio, queste opere creano uno spazio di risonanza – dove i corpi filmati diventano luoghi di proiezione, attenzione e insistente quiete. Non sentiamo confessioni, ma tracce. Ciò che testimoniamo è una forma di resilienza che non cerca visibilità quanto piuttosto reclama durata. Questa mostra è presentata in dialogo con Wonder Women – un programma avviato dalla Domus Art Residency a Galatina – come parte di uno scambio curatoriale continuo, plasmato da preoccupazioni e affinità condivise
OPERE IN MOSTRA:
Emilija Škarnulytė, Sunken Cities
In Sunken Cities, Emilija Škarnulytė fonde documentario, mitologia e performance attraverso la figura della sirena — creatura insieme antica e speculativa. Girato tra le rovine sommerse di Baia, un’antica città di villeggiatura romana inghiottita dal mare, il video segue l’artista, addestrata all’apnea con monopinne, mentre attraversa silenziosamente i resti sommersi di un’antica grandezza. Baia era famosa per le sue sorgenti termali vulcaniche e l’architettura terapeutica. Ma già nel XVI secolo fu abbandonata – le sue rovine lentamente sommerse dalle stesse forze geotermiche che l’avevano resa celebre. Scivolando tra i resti di una civiltà scomparsa, la presenza dell’artista evoca perdita e trasformazione. L’opera invita a riflettere sull’impermanenza del potere, sulla fragilità degli ambienti costruiti e sui modi in cui la storia riaffiora – mezzo cancellata, mezzo immaginata. La sirena, insieme testimone e sopravvissuta, diventa un veicolo per contemplare il tempo profondo e la continuità incerta tra passato e futuro.
Agnès Accorsi, L’Âme hospitalière
Sulla costa corsa, una donna passeggia – calma, enigmatica – evocando un ricordo cinematografico: forse un’eco lontana di Marianne Renoir che cammina accanto a Ferdinand Griffon in Pierrot le fou. Ma qui, la figura impugna un mitragliatore. Né musa passiva né ribelle romantica, fonde entrambi i ruoli, incarnando seduzione e pericolo in un unico gesto. Come le meduse che fluttuano sotto la superficie del Mediterraneo, la sua presenza segnala bellezza e minaccia. Tra la noncuranza estiva e la violenza latente della resistenza armata, il film abita una zona di tensione. Il titolo – L’Âme hospitalière, ovvero “L’Anima ospitale” – prende in prestito un verso dalla canzone di Adamo Les Filles du bord de mer del 1969, ma lo spoglia dello sguardo maschile e della nostalgia dolciastra. Ciò che resta è una donna senza narrazione, senza contesto – e senza scuse. L’opera scardina silenziosamente i ruoli familiari assegnati alle donne nel cinema e nella memoria collettiva. L’anonimato del personaggio diventa una posizione: non ha più bisogno della storia di qualcun altro per affermare la propria.
Niyaz Azadikhah, Refuge
Refuge si svolge in un paesaggio simbolico in cui gli alberi sono formati dalle silhouette di donne con l’hijab. I loro corpi, fusi con tronchi e rami, si ergono come pilastri di forza, immobilità e protezione. Sullo sfondo, alcune figure solitarie si muovono verso questi rifugi – presenze fragili in cerca di conforto in un mondo segnato dall’instabilità. Il video evoca la precarietà dello sradicamento e il desiderio di un luogo sicuro, celebrando silenziosamente la sorellanza come forza politica. Questi alberi non sono solo metafore – sono guardiani, depositari di memoria, spazi dove la cura collettiva mette radici. In un mondo fratturato da violenza e cancellazione, Refuge diventa una visione di resistenza plasmata da empatia e tenacia.
Bouchra Khalili, Anya
Anya è il secondo capitolo della serie Straight Stories di Bouchra Khalili, che esplora le narrazioni della migrazione attraverso testimonianze personali. In questo video, una giovane donna irachena racconta il suo viaggio: dopo essere fuggita dall’Iraq, ha vissuto per dodici anni in Turchia, in attesa di un visto per raggiungere uno zio in Australia. Lavora illegalmente, senza documenti, sospesa in un limbo geografico e amministrativo. La telecamera non mostra mai Anya. Solo la sua voce calma e determinata ne testimonia la presenza. Questa scelta formale sottolinea la tensione tra visibilità e cancellazione, tra esistenza e assenza. Il paesaggio invernale di Istanbul diventa specchio di un destino congelato, una vita in transito perpetuo. La narrazione intima di Anya, priva di pathos, rivela la forza di chi, nonostante l’attesa e l’incertezza, continua a credere in un futuro possibile.
Saodat Ismailova, Her Right
Her Right riunisce donne leggendarie del cinema uzbeko – eroine i cui gesti, silenzi e sguardi hanno plasmato l’immaginario collettivo. Il titolo è preso in prestito da un film del 1934 diretto da G. Cherniak. Attraverso un montaggio di scene tratte da film classici uzbeki, Saodat Ismailova rilegge la storia del paese mettendo in luce il ruolo trascurato che le donne hanno avuto nella sua evoluzione. Il film fa riferimento all’Hujum, una campagna sovietica lanciata nel 1924 con l’obiettivo di “liberare” le donne musulmane, vietando tra l’altro il velo. Pur presentata ufficialmente come progetto emancipatorio, la campagna fu spesso vissuta localmente come un processo violento di cancellazione culturale – un’allineamento forzato ai valori sovietici e alle norme russe. Il velo, lungi dall’essere solo un simbolo religioso, era divenuto per molte un segno di identità culturale. Her Right utilizza estratti da film di registi come Latif Fayziyev, Ali Khamrayev e Shukhrat Abbasov, dal 1920 agli anni Ottanta. Questi frammenti, tratti da copie VHS e BetaCam rinvenute in archivi privati, sono accompagnati da una colonna sonora della musicista londinese Seaming To. Attraverso questo assemblaggio di cinema muto, il film riflette sul ruolo complesso del cinema come strumento politico, rendendo omaggio alla resilienza delle donne – sia sullo schermo che dietro di esso – nella costruzione di una coscienza nazionale.
Natacha Lesueur, Maramarama
Una foresta emerge, immersa in una luce monocromatica rossa, creando un’atmosfera surreale e inquietante. L’assenza di presenza umana e l’apparente immobilità della scena accentuano il senso di irrealtà e solitudine. La scelta deliberata di Lesueur di saturare la scena di rosso altera radicalmente la nostra percezione naturale dei motivi arborei. Questo monocromo rosso può essere interpretato in molti modi: forse evoca urgenza, pericolo, passione o violenza. Questa singola modifica cromatica invita lo spettatore a proiettare le proprie emozioni o interpretazioni su ciò che altrimenti sarebbe una scena naturale e pacifica. Nel contesto del lavoro di Lesueur, che spesso esplora il rapporto tra apparenza e realtà e l’uso dell’immagine manipolata per rivelare ciò che è nascosto, il rosso può simboleggiare il filtro attraverso cui vediamo il mondo – un mondo alterato da percezioni culturali e personali. La derealizzazione prodotta dal colore in Maramarama sottolinea l’idea che ciò che vediamo è una costruzione. Lesueur ci ricorda che l’arte non è mera riproduzione della realtà, ma creazione che riflette la visione e le intenzioni dell’artista, consentendo un’esplorazione più profonda di temi ed emozioni. La presenza delle palme suggerisce che il titolo possa essere di origine polinesiana, spesso traducibile con “chiarezza” o “luce” in diverse lingue della regione. In questo contesto, il titolo potrebbe riferirsi a una forma di rivelazione o illuminazione, in ogni caso, a un risveglio.